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Archivio, Heritage, Déjà-vu: La Moda Va Avanti…Girandosi Indietro.


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Il ritorno al passato domina la moda. Perché non possiamo più fare a meno di Archivio e Heritage?


Ormai è impossibile parlare di moda senza citare “Archivio”“Heritage”, le due paroline magiche che fanno sussultare fashion victims e fashion lovers. Partendo dal presupposto che la stragrande maggioranza dei brand oggi ha almeno trent’anni (Chanel è stata fondata nel 1910 e Christian Dior ha lavorato nel suo atelier dal ’46 al ’57) e che quasi nessun nuovo marchio riesce a sopravvivere per più di qualche stagione (un’eccezione? The Row, probabilmente), è chiaro che il passato sembri molto più rilevante del futuro, enorme contraddizione per un settore che, come la moda, dovrebbe essere sempre e comunque proiettato in avanti.

 

Ma tant'è, vuoi il turnover dei direttori creativi, vuoi la polarizzazione che schiera uno contro l’altro LVMH, Kering e pochi altri gruppi, sta di fatto che le vere novità si contanto sulle punta delle dita ed è tutto in ispirarsi al già detto e già fatto.

Siamo pratici: se devi spendere una barca di soldi per un tailleur, vuoi la certezza che tutti capiscano che è uno Chanel, senza il pericolo che venga scambiato per uno Zara, rischio da tenere in conto quando, come oggi, lo pseudo lusso è dappertutto.

 

Quindi, in tempi di magra creatività, si riaprono le porte dell’ "Archivio” che sarebbe poi il luogo della memoria fisica del marchio: un posto reale, vivo e curatissimo dove sono raccolti abiti, accessori, bozzetti, tessuti, prove colore, look book, campagne, fotografie, documenti interni, e perfino prototipi mai realizzati. È l’anima concreta del brand, una specie di capsula del tempo che racconta chi è stato, cosa ha creato, quali look ha inventato, quali rivoluzioni ha lanciato.

Da non confordere con l’”Heritage”, che è tutta un’altra storia. Se l’Archivio lo puoi toccare, l’Heritage lo puoi solo raccontare. È il mito fondativo, l’immaginario, la grammatica estetica. È quella cosa invisibile che rende immediatamente riconoscibile un abito, anche senza logo. E’ un patrimonio che si costruisce in decenni di duro lavoro e di smaglianti successi. E’ esattemente quello che rende desiderabile un brand, che dona status a chi lo indossa e che, ahinoi!, impone prezzi spropositasi.


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La scorsa settimana Matthieu Blazy ha presentato la sua seconda collezione Chanel, l'annuale "Metiers d'Art" dedicata agli atelier artigianali che da sempre contribuiscono a tener vivo il mito delle due C. Un défilé che ha attinto a piene mani all’archivio (non solo della maison) presentando abiti che, a detta di molti, più che una citazione erano veri e propri copia e incolla. D’altra parte le VIC (Very Important Clients - beate loro!), ricchissime signore che indossano Chanel sempre e ovunque, avevano storto il naso davanti al suo debutto, lo scorso settembre, e il buon Mathieu, subito bollato come troppo innovativo e giovanilista, deve aver ricevuto più di un garbato suggerimento a fare un salto in archivio prima che fosse troppo tardi.

E allora? C’è chi la vuole cotta e chi la vuole cruda: le VIC vogliono l’ancien regime, le giornaliste, le fashion victims, i fashion lovers e tutti noi vorremmo più novità e almeno un pizzico di creatività.

I tanto osannati “archivi”e il così tanto citato “heritage” sono la croce e la delizia dei nuovi creativi della moda, ai quali non si chiede più di esprimere in totale libertà la propria visione ma, visto che sull’etichetta degli abiti che disegnano c’è il nome di un couturier morto anni fa, si impone loro di reinterpretare e reinterpretare e reinterpretare all’infinito la storia del brand per il quale (mestamente) lavorano.

 

Bei tempi quelli in chi Hermes chiamò prima Martin Margiela (1999-2003) e poi Jean Paul Gaultier (2003-2010) ad aggiungere un guizzo, un tocco, un afflato alla selleria più desiderata del mondo. Bei tempi quelli in cui Bernard Arnault, con il suo LVMH, acquisiva marchi in punto di morte e coraggiosamente li rinvigoriva con maschere ad ossigeno chiamate John Galliano, che dal 1996 al 2011 stravolse letteralmente il glamour Dior, o Alexander Mc Queen che dal 1996 al 2001 irradiò di tutto il suo talento Givenchy (1996-2001). Collezioni memorabili che oggi sembrano inarrivabili perché, nel frattempo, sono passati quasi vent’anni, i prezzi del lusso sono lievitati senza controllo, il fast fashion è dappertutto e le persone con un pizzico di sale in zucca vogliono vestirsi in modo etico, utile allo scopo e con un giusto value for money.

 

Morale della favola? Si spalanchino le porte degli archivi e si dia fiato alle trombe dello heritage, con buona pace della creatività pura che oggi non va più di moda.



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